Antonio sale sul palco della Cavea e il concerto parte con il turbo: una canzone via l’altra, niente pause, niente discorsi. Resto sorpresa, lui si è sempre raccontato e mi manca l’empatia che si crea quando parla al suo pubblico. Però lo capisco: c’è un nuovo album, nuovi arrangiamenti, le canzoni troppo belle per non essere suonate sono troppe.

Antonio macina brani, riempie l’aria con la sua voce cristallina, divora il palco e incanta con la sua eleganza, e io intanto me ne sto con il cuore indifeso e mi stringo tra le braccia per placare le ondate di pelle d’oca. La scaletta è fittissima, un’improvvisa raffica di emozioni a cui non sono del tutto preparata. Sarà il mio suo trentesimo concerto, ma ancora non mi abituo.

È la prima volta che sento l’album nuovo dal vivo… lo avevo già consumato su Spotify, ovvio, ma così è tutta un’altra cosa. È una magia, una serie di colpi di fulmine, nuove “canzoni preferite” che non mi ero accorta fossero COSÌ belle.

Ci sono pochi artisti che mi leggono dentro come fa Antonio, e con i brani dell’ultimo album ci riesce con una precisione quasi millimetrica. Parla di Roma, dei mesi in cui è rimasto bloccato in questa città, quando doveva starci solo una settimana. Ho vissuto la stessa cosa, in quegli stessi mesi, quando la vita mi ha portata a Roma in piena pandemia. Ho sperimentato la stessa solitudine, l’estraniamento, la crisi interiore, il bisogno viscerale di amicizia, ogni cosa che sento urlare dentro queste canzoni.

Vorrei alzarmi e ballare, sfogare l’energia che questa musica mi genera dentro. Per fortuna al bis il pubblico si alza e io corro sotto palco. Un breve assaggio dei concerti in transenna, quando Antonio cercava tutti con lo sguardo e cantava guardandoti negli occhi. Ma non basta. Come ogni bis, dura troppo poco. Torno a casa con le canzoni ancora in gola, con il desiderio irrefrenabile di scendere dall’auto e ballare, di gridare nella notte e raccontare a tutti la scintilla che è scattata con i pezzi nuovi.


di Maria Laura Fiorentini