Raccontami un concerto: Cecco & Cipo all’Ohibò di Federica Sessa
Dopo anni di esperienza sul campo, so che mi ci vuole del tempo per riprendermi da un concerto e parlarne in maniera pseudo-lucida, ancor più se il concerto in questione è quello di Cecco e Cipo. Non importa quante volte li abbia visti, riescono sempre a emozionarmi e sorprendermi, trascinandomi nel loro mondo e – allo stesso tempo – facendomi sentire a casa.
Così, mi ritrovo qui, una settimana dopo, a mettere a posto tutti i tasselli di quello che aveva già tutte le premesse per essere il live perfetto: la mia band del cuore nel mio locale del cuore (amici del Circolo Ohibò vi amiamo, lo sapete) con la compagnia migliore che si possa avere ad un concerto – quella di fan in fissa tanto quanto te.
Quasi dando voce ai miei pensieri e riuscendo a stupirmi ancora una volta, Cecco e Cipo hanno trasformato il live in una sorta di terapia di gruppo: seduti in cerchio hanno dichiarato ognuno le proprie patologie (vere o no chi lo sa, e forse neanche importa); ne hanno discusso tra una canzone e l’altra, tra una battuta e l’altra. Intanto io me ne stavo lì, incantata come sempre, a chiedermi – e forse era proprio questo il messaggio – se la musica, in special modo quella live, non sia forse sempre una terapia. Una zona franca in cui sentirsi al sicuro e liberarsi da ansie e paranoie.
Starsene sotto palco a cantare all’unisono pezzi come Non Voglio Dire o Tutto Il Bello Che C’è, tornare bambini dondolando su Be’ o La Licenza di Tuttologo, scatenarsi su Orazio o Dovresti Farci Una Canzone, ridere di gusto agli sketch, pogare (perché sì, si poga ai concerti di Cecco e Cipo): queste sono solo alcune delle cose catartico-liberatorie che ti succederanno ad un concerto di Cecco e Cipo. Mica male come terapia, no?
Poi certo, ti capiterà anche lo sconosciuto che sale sul palco giusto per ballare, o di fare le tre a chiacchierare e mangiare il tuo primo panino con la carne di cavallo. Ma questa è tutta un’altra storia.
